Copiare non è peccato

novembre 27, 2009

«Il Web è più un’innovazione sociale che un’innovazione tecnica. L’ho progettato perché avesse una ricaduta sociale, perché aiutasse le persone a collaborare, e non come un giocattolo tecnologico. Il fine ultimo del Web è migliorare la nostra esistenza reticolare nel mondo. Di solito noi ci agglutiniamo in famiglie, associazioni e aziende. Ci fidiamo a distanza e sospettiamo appena voltato l’angolo». Tim Berners-Lee.

Appena tre giorni fa l’Unione Europea ha approvato il pacchetto Telecom, complesso di regole che riforma l’intero settore delle telecomunicazioni. Per la prima volta viene riconosciuto il diritto del cittadino ad informare ed informarsi tramite la rete, ma è la questione della lotta globale alla pirateria online il punto più controverso su cui il dibattito si era bloccato l’estate scorsa con le numerose minacce di applicazione di disconnessioni punitive nei confronti di coloro che abusano della rete per scambiare senza autorizzazione contenuti protetti dal diritto d’autore. L’Europa si è dimostrata molto disponibile nel garantire ai detentori dei diritti nuovi strumenti per blindare il prodotto del loro lavoro, mentre ai cittadini della rete che venissero colti dai detentori a violare il copyright verrà concesso nulla di più di un giusto processo senza che il confronto con autorità indipendenti che non hanno nulla a che vedere con l’autorità giudiziaria (cosa proposta da Sarkozy).

Per quanto mi riguarda tutte le arti sono un fattore di crescita per la società e per le persone e tutti hanno diritto ad accedervi in base al diritto all’istruzione e al diritto alla fruizione della bellezza, vero e proprio bisogno dell’uomo da preservare in quanto indispensabile alla sua completa realizzazione. Un’opera non è il prodotto di un singolo individuo e meno che mai dei suoi eredi ma è il prodotto di una società, di una comunità e di un’epoca in quanto risultato, più o meno consapevole, di influenze di altri artisti e uomini comuni passati e contemporanei. Se la genesi di un’opera è sociale deve rimanere tale anche il suo uso. La proprietà intellettuale deve essere messa a disposizione del bene comune. È giusto che un autore abbia un margine di guadagno proporzionale ai costi da remunerare ma trovo ridicolo che la violazione del diritto d’autore sia equiparata al reato di furto. Questo di fatto fa della cultura, dell’arte e della bellezza in genere un privilegio di cui solo chi ha notevoli possibilità economiche può usufruire. Ma non c’è da stupirsi di questo consolidato modo di pensare. Lo stesso che legittima il fatto che i quartieri “popolari” abbiano per forza un’architettura orribile, grigia, alienante, che siano privi del verde e di tutto ciò che possa rendere la vita quotidiana e domestica piacevole e serena. Non è un caso che la criminalità sia elevata in questi quartieri “ghetto” dove gli abitanti sviluppano spesso uno stato d’animo e mentale di tristezza e rassegnazione misto a rabbia.

C’è però chi ha accolto i nuovi bisogni culturali ed ha proposto paradigmi innovativi. Negli anni Ottanta il Free Sofware Movement di Richard Stalmman crea il copyleft, un modello alternativo di gestione dei diritti d’autore grazie al quale il detentore dei diritti, attraverso l’applicazione di specifiche licenze, concede una serie di libertà agli utenti dell’opera, che può essere utilizzata, diffusa e spesso anche modificata liberamente, nel rispetto di alcune condizione essenziali. Sviluppatosi da prima principalmente in ambito informatico con i movimenti Software Libero e Open Source, negli ultimi anni si è invece esteso a tutte le opere dell’ingegno con i movimenti Creative Commons, OpenAccess, Opencontent ecc… Il motivo per cui non si possono lasciare software o opere semplicemente di pubblico dominio è perché altri individui si potrebbero facilmente impadronire dei risultati del lavoro di libere comunità di utenti o di singoli autori privatizzandoli. Il copyleft invece tutela il proprietario di un’opera, perché nel momento in cui ne viene fatto un uso a fini di lucro e ne viene impedita la libera circolazione, questo può far valere i suoi diritti d’autore. Diritto d’autore e copyright non sono la stessa cosa. L’equazione copia pirata = copia non venduta è stata creata unicamente per confondere le idee e per arricchire l’industria e non per dare il giusto riconoscimento al lavoro di un autore. La circolazione di un prodotto non è altro che pubblicità e più un’opera circola più quell’opera viene venduta. Il copyleft consente in questo modo di conciliare l’esigenza di un giusto compenso per il lavoro e la creatività di un autore con il suo uso sociale.

Fino a pochi decenni fa era quasi impensabile un’opera scollegata dal suo supporto fisico. Benjamin tra i primi aveva intuito che le innovazioni tecnologiche (e digitali degli ultimi anni) avrebbero portato ad una messa in discussione dei principi su cui si fonda l’opera d’arte e che sono alla base del sistema della proprietà intellettuale. Il prodotto culturale, oggi de-materializzato, ha sconvolto quelli che erano gli equilibri economici e giuridici stabili ormai da secoli. Quando il copyright fu introdotto, nel XVI sec., dopo la diffusione delle macchine automatiche per la stampa, non esisteva la possibilità di copia privata senza fini di lucro perché solo un editore concorrente poteva avere accesso ai macchinari tipografici. In questo senso il copyright non era percepito come anti-sociale perché era l’arma di un imprenditore contro un altro e non di un imprenditore contro il pubblico. Oggi la situazione e ben diversa. Computer e Internet hanno quasi azzerato il costo e la difficoltà di riprodurre e di usufruire delle opere. In principio fu Napster, uno dei primi sistemi di condivisione gratuita di file musicali. Dopo la sua chiusura nel 2002, generata dalle denunce degli editori che vedevano nel sistema un concorrente ai propri profitti, sono prolificati i programmi di file sharing di materiale coperto da copyright in particolar modo grazie al sistema peer-to-peer ed il diritto industriale internazionale si è trovato impreparato di fronte alla velocità di questa diffusione. Ma oggi si aggiunge una battaglia ulteriore per i difensori del copyright, quella ai siti che distribuiscono video in streaming tramite il formato di Adobe Flash (come You tube, Google video, Megavideo…).

Nonostante la libera circolazione di opere e idee sembri inarrestabile, una minaccia concreta ad Internet ed al suo libero uso esiste e si chiama ACTA (Anti Counterfeiting Trade Agreement). Si tratta di un accordo multilaterale che tramite il “policy laundering” (tecnica per imporre leggi tramite accordi internazionali scavalcando i regolari scrutini parlamentari) cerca di rafforzare le proprietà intellettuali, con provvedimenti di inasprimento delle pene che prevedono la richiesta di detenzione anche quando le violazioni del diritto d’autore non hanno scopo di lucro, ispezioni sistematiche del traffico nel Web che violano ripetutamente la privacy, obbligo di sorveglianza generale sui contenuti per le piattaforme che ospitano contenuti generati da utenti, perquisizione alle frontiere di laptop, cellulari, lettori MP3, memorie di massa ecc… I contenuti dei negoziati sono secretati ma trapelano in alcuni siti i documenti ufficiali che destano non poca preoccupazione soprattutto per quanto riguarda l’accesso ai farmaci a basso costo. Le leggi sul copyright infatti tutelano la proprietà intellettuale del farmaco con brevetti che creano un monopolio legale per un periodo di tempo che in Italia è di 25 anni. Dopodiché possono essere prodotti farmaci equivalenti, anche se il produttore facilmente può ottenere un nuovo brevetto se ripresenta lo stesso principio attivo modificato, promulgando la vita utile del farmaco teoricamente ad oltranza. Le conseguenze più gravi di questo sistema, che arricchisce le case farmaceutiche in modo smisurato, ben oltre il risarcimento dei costi di ricerca, ricadono come sempre sui paesi più poveri, dove la presenza di malattie epidemiche ed il costo di alcuni farmaci salvavita ancora sotto brevetto risultano proibitivi per il reddito medio delle famiglie e per le finanze statali.

Le pubblicità anti-pirateria con le loro musiche angoscianti con le facce tristi e serie di scrittori e cantanti sono davvero patetiche. L’uso privato non è un reato è voglia di conoscere e se ci tolgono questo non è che improvvisamente ci potremmo permettere di andare a teatro, ai concerti, di comprare cd e dvd, e quant’altro, saremmo solo un po’ più ignoranti e incivili.

Giada